Saggi

 

 

MANZONI

 

E

 

LA LINGUA MILANESE

 

MEMORIA

 

DI

 

CESARE CANTÙ

 

ACCADEMICO DELLA CRUSCA

 

 

letta nelle adunanze del 15 e 29 aprile 1875

del Regio Istituto Lombardo di Scienze e Lettere,

riprodotta dai Rendiconti dello stesso Istituto nel periodico

LA LOMBARDIA,

e per gentile assenso, dell'Autore

anche in questa ristrettissima edizione

fuori di commercio.

 

 

 

 

 

 

MILANO

 

TIPOGRAFIA C. MOLINARI & C.

Galleria Vittorio Emanuele, 77

 

1875.

 

 

 

 

 

 

Onorevoli Colleghi,

non fatemi colpa se, in un campo, dove qui stesso abbondantemente si raccolse, io venga a spigolare, persuaso che molte cose restano e, resteranno gran pezzo a dire intorno al Manzoni. Corsero  quarantatrè anni sopra la morte di Göthe, eppure i Tedeschi ne riparlano continuamente, e a Göthe non è certo inferiore Manzoni se non per avere questi scritto meno, e scritto in una lingua che è poco estesa.

Eppure questa lingua c'è, ci fu, venne col­tivata anteriormente a tutte l'altre viventi d'Europa, e oggi non ha cambiato che due o tre parole da quando la adoperava serenamente il Petrarca cinque secoli fa (1), e Manzoni ben caratterizzò la nostra nazione dicendola :  Una d'armi, di lingua, d'altar e che qui « un linguaggio parlan tutti ».

Come dunque invece si combatte perfin sul suo nome? È giustizia il volerla uniformare affatto al tipo di altre? È vera colpa che gli scrittori usino una lingua letteraria, diversa dalla parlata, sicchè se n'abbia una nelle bocche, un'altra negli scritti, e così se ne formino « venti o trenta, le quali scomparirebbero e darebbero luogo alla vera, alla buona, alla sola, se altri volessero mostrarla, altri vederla »?

Queste parole scriveva il Manzoni a Giuseppe Borghi già nel 1825. Accintosi egli a richiamare la letteratura alla verità, pensò che, come i sentimenti, così la dicitura potesse desumersi dal popolo; e mentre allora si trascuravano i pregi veri, cioè l'efficacia e l'energia, per cercar l'eleganza; sfiorettare il discorso con parole peregrine, giulebbarsi una frase, una trasposizione, una cadenza scoppiettante, e grazie leziose, non elevando mai l'ideale oltre la correzione dello stile e la purezza dell' espressione; mostrandosi indifferenti a qualsiasi credenza, invece di quel tono di verità senza cui non si persuade, affettando quell'ardore di parola che volgar­mente si qualifica d’eloquenza; egli mirò a sbarbicare la pedanteria e la retorica., togliere il contrasto fra il parlare e lo scrivere, come vi era fra la scuola e la città, fra la vita e la letteratura; mettere dappertutto il naturale perfetto che comunica l'accento della verità a sentimenti onesti; dare al libro l'amabile facilità d'una conversazione colta, l'evidente sincerità della frase; esprimere i sentimenti eterni del cuore umano nel linguaggio più schietto. In questa ricerca conobbe che più semplice è il parlare quant'è più proprio; e il più proprio fra gl'idiomi nostri è il toscano, ricco inoltre d’espressioni efficacissime, argute, vicine, all'etimologia , di sottili distinzioni, di evidente trasparenza, e più omogeneo perché ha maggior parte di latino e minore del celtico o tedesco o arabo che s'è innestato in altri nostri idiomi.

Io non amo veder questo grande pensatore, che riduceva lo stile a « un ben pensato, bene scritto, ben detto non riducibile a regole » (alla Saluzzo); non amo vederlo atteggiato da pedante, che cerca col fustellino la parola, come il Cesari razzolava le frasi e ingiusto mi parve un giornale che disse aver il Manzoni introdotto nel suo romanzo errori apposta, che nella prima edizione non si trovano (Rivista militare): e un altro (Ateneo religioso, marzo 1875) che i personaggi dei Promessi Sposi, nella nuova edizione son fatti parlare con tal linguaggio da disgradare il Bresciani,, e i riboboli del Mercato Vecchio tener il luogo degli idiotismi ambrosiani.

Io non vorrò scusare questi idiotismi; bensì spiegarli. Ne' molti colloquj e nei pochi viaggi che fece, il Manzoni stupì di sentire in lontani paesi d'Italia non solo parole, ma locuzioni frasi, proverbi, giri, usitatissimi fra noi (2), onde pensò che unico fosse l'impasto dei dialetti, e che in fondo a tutti si trovassero tali somiglianze, da formare una sola lingua, e convenisse profittare delle proprietà e vivezze di ciascuno. I nostri scrittori formaronsi una lingua a parte, che in nessun luogo si parla, onde riuscì dilavata, slombata, cascante. Per darle vita bisognava por mente  al parlare usuale, « al sermon patrio, le facezie, il riso dell'energica plebe »; a quello favella andante, nervosa, efficace, con modi famigliari, vispi, calzanti, con accorte maniere di significar in modo singolare i concetti più comuni.

Secondo queste convinzioni scrisse i Promessi Sposi, dove non pretese far adottare modi lombardi; bensì si valse di quelli, di cui avea trovati esempj ed autorità toscane. Non aveva ancora, posto alla lingua le cure che poi trovò necessarie, e, molte delle correzioni che poi vi introdusse erano veramente richieste dalla buona sintassi dalla grammatica, da quel dovere che ci incombe di scrivere colla maggior chiarezza, precisione ed anche concisione. Ma nessun creda li dettasse a caso; ed egli stesso nella prefazione alla prima stampa professavasi disposto a giustificarli tutti.

 

Io ebbi altrove a raccontare (Italiani Illustri, 111, 15) come molti allora appuntassero il Manzoni e (poichè le malattie letterarie son sempre contagiose) noi, poveri suoi seguaci, di cucinare lombardismi. E avendo l'abate Ponza fatto quello da cui i censori scaltri ben si guardano, di precisare l'accusa e mettere il dito sulle piaghe pretese, io stesi una Cicalata sugli idiolismi, ove di esempj classici munivo tutte le frasi e parole rimproverateci e allargavo il tema adducendo una filatessa di idiotismi lombardi, che riscontravansi ne' migliori fiorentini, e specialmente ne' comici.

 

Manzoni erasi assunto di farvi una prefazione e una conclusione, ma, come soleva, Il tema gli crebbe in mano, e tessendo e scomponendo quella tela, si sa come mai non riempisse l'ordito. Ne allora egli aveva ancora elevata la vista a quell'unità, di cui sempre fu innamorato; non piegata del tutto la fronte a quell'autorità, che credette necessaria in tutto, necessaria qui per arrivare all'intima comunanza della parola; a una lingua unica, convenuta, diffusa, adoperata generalmente e in tutti i casi da tutti gli Italiani, insomma a dir tutti in una maniera quel che diciamo ciascuno in maniera diversa.

 

Ma già vedeva come non bisognasse ricorrere a stromenti artifiziali, i classici, i trecentisti, le grammatiche, il vocabolario, bensì ad un canone naturale ; onde a Ranieri Sbragia scriveva : « Il vocabolo lingua, quando significa un complesso di segni verbali, è una metafora presa da quell'istromento che il creatore ha messo in bocca agli uomini, e non nel loro calamajo ».

 

Egli stesso narrò come, « essendosi messo a comporre quel lavoro mezzo storico e mezzo fantastico, col fermo proposito di comporlo in una lingua viva e vera, gli si affacciavano, alla mente, senza cercarle, espressioni proprie, calzanti fatte apposta per i suoi concetti, ma erano del suo vernacolo, o d'una lingua straniera, o per avventura del latino, e naturalmente le scacciava come tentazioni; e di equivalenti, in quella che si chiama italiana, non ne vedeva, mentre le avrebbe dovuto vedere al pari di qualunque altro Italiano, se ci fossero state. E non c'essendo, dove trovar raccolta e unita quella lingua viva che avrebbe fatto per lui? e non si volendo , rassegnare ne a scrivere barbaramente a caso pensato, nè ad esser da meno nello scrivere di quello che poteva essere nell'adoperare il suo idioma, s'ingegnava a ricavar dalla sua memoria le locuzioni toscane che ci fossero rimaste dal leggere libri toscani d'ogni secolo, e principalmente quelli che si chiamano di lingua; e trovando per fortuna i termini che, gli venissero in taglio, doveva poi fare, dei giudizj di probabilità, per argomentare se fossero o non fossero in uso ancora».

 

Mi direte che queste sono parole di un convertito, ma fin dall'aprile dei 1829 a Giuseppe Borghi mandava :

« Chi scrive ignora buona parte della lingua colla quale ha da scrivere; e un'altra buona parte la sa senza saper di saperla, giacché crede idiotismo del suo dialetto ciò che è lingua viva  e vera e legittima quanto si possa. Ma come trovarla o assicurarsene? Gli scrittori eh? Da che capo li piglio gli scrittori? Da che lato, mi fo, per trovare il vocabolo di cui ho bisogno? E se li leggessi tutti, in corpo e in anima, e non ve lo trovassi? Chi m'assicura che negli scrittori vi sían tutti i vocaboli? E se ne trovo uno: che non è più in uso, e sta nei loro scritti come i loro corpi stanno nella fossa. Il vocabolario? ma per cercar una parola nel vocabolario bisogna saperla, e poi quante mancano, quante sono di quelle che l'uso ha abbandonate, e nel vocabolario stanno, imbalsamate, se volete, ma non vive certamente ».

E conchiudeva di venerare la Crusca, « ma dove l'uso si fa intendere, il vocabolario non conta più nulla per me ».

Potrebbe alcuno riflettere che la facilità sua allo scriver francese per opposto all'italiano, veniva dall'aver questo cercato ne’ dizionarj e ne’ libri, più che nel parlato.

Ma come acquistare il vero toscano, chi nacque fuori del fortunato paese e, non possa, frequentare persone di colà ?

Manzoni  ha sempre desiderato che alcun toscano traducesse il Dictionnaire de l'Académie francaise. Questo dà tutte le parole d'una lingua conosciuta e adoperata da tutti, e nella quale pur troppo pensa la più parte di noi pel continuo leggerne i libri. Se a quel dizionario fossero apposto le vere parole toscane, ecco le troveremmo; essendo vero che noi diciamo sovente lo sciffon, il dévouement, chicane, e dessert, gené, regret, échantillon, chavirer... perché, ci vien meno la voce italiana corrispondente. A questo bisogno di trovar l'incognito per via dei cognito altri soccorsero coi dizionarj sistematici; altri coi dizionarj dei dialetti. Ognuno conosce il proprio, e Manzoni vantavasi di conoscere perfettamente la lingua milanese, ne’ certo ci manca mai la parola per esprimere in questa la nostra idea. Or bene, a tutte le parole e frasi d'un dialetto si affacci la toscana ed ecco una via di assicurare pretto il nostro parlare.

Una via, dico, non la via, giacché diverso si parla in città, che in contado, anzi col cittadino che col campagnuolo, secondo il grado o la coltura dell'interlocutore. Queste sfumature nessun dizionario può dare. Ma prima di tutto bisogna volere che alla parola viva della nostra lingua equivalga la viva toscana, non quella d'un dizionario, d'uno scrittore; tanto più che da noi non v'è scrittori che facciano autorità generale, e consentita, come sarebbero in Francia Boileau, Des-Cartes, Molière, Pascal, Voltaire.

Or qui è dove peccò il Cherubini. Lodatissimo egli è da competentissimi giudici, massime perla copiosa raccolta e la buona disposizione della dialettologia italiana in 12 grossi volumi, che lasciò incompiuta: ma se un dizionario giova in quanto serve a tradurre rettamente da una lingua in un'altra, io confesso non aver ricavato nessun vantaggio dal Cherubini, anzi più volte esserne stato tratto in inganno. Avrei del parer mio Giuseppe Giusti, il quale a Manzoni lo qualificava per un « gran brodolone... Ti farà una filastrocca di vocaboli per ispiegartene uno che si dice qua tal quale ; e quando ti pensi d'aver avuto tutto il tuo, ti lascia con le mosche in mano. E quel mettere a sovvallo tutte le squisitezze stampate per istiracchiarle a rispondere a un dialetto, senza sapere e senza voler sapere un'acca di lingua viva. Di fatto ad una lingua parlata surrogò una lingua scritta, cercando pazientemente nella Crusca o nei classici i modi corrispondenti ai nostri vulgari; non curando se fossero del tono stesso, quand'anche dello stesso significato, e se vivi. Si direbbe ch'egli ha voluto far comprendere agli Italiani il dialetto milanese, anziché i Milanesi ajutare a tradurre il loro pensiero in toscano. Sarebbe stato naturale che andasse in Toscana, come fece, il Carena, o (spediente miserabile) domandasse di là i vocaboli corrispondenti. Non l'avendo fatto, molte voci lasciò senza traduzione, anche dopo i tanti miglioramenti della seconda edizione ; a molte lasciò il segno del dubbio (?). Pure, onde valersi di quel che c'era, il Manzoni mandò una copia del, dizionario del Cherubini in Toscana, perché fosse e completata ed emendata. Un valente lessicografo suppose lo mandasse a certuni che, secondo lui negli ultimi tempi lo trassero in inganno col « dargli ad intendere essere di uso comune in Firenze molte cose che di uso comune non sono, ma di uso in certi casi, o di uso volgare o familiarissimo, come il cosa per che cosa; si fece si disse per facemmo, dicemmo ; lui, lei, loro, continui per egli, ella, ecc., e molte altre che gli fecero mettere nei Promessi Sposi, e che in molti luoghi staccano troppo». Manzoni ne incaricò specialmente il dottor Cioni e Giuseppe Borghi. Il Cioni fiorentino, buon naturalista, era convinto anche da' suoi paesani che volessero esser certi del valore di locuzioni toscane. Il Borghi di Bibbiena fece inni, con troppa cortesia lodati dal Manzoni, in undici soli mesi tradusse poco felicemente Pindaro, e fece discorsi retorici sulla storia italiana, che niuno più legge. Oggi, dalle lettere raccolte dallo Sforza, siam chiari delle cure che Manzoni domandava, e di quelle che essi vi posero.

Quella copia capitò a un fortunato raccoglitore di rarità bibliche, il cav. Damiano Muoni, ed egli ebbe la cortesia di lasciarmela a posta esaminare. Oltre i due predetti, vi posero mano altri, e certamente G.B.Niccolini, e anche un Milanese dimorante da un pezzo in Firenze, poiché, per esempio, alla voce strafalari, nota: « Non l'ho mai intesa ». Gran parte poi delle note è dovuta al Manzoni stesso, che le raccolse sia visitando la Toscana, sia leggendo libri o ascoltando, come sì volentieri facea, persone di colà.

Ma quel che più bramerei da voi notato è che gli annotatori o si proponeano di mostrare o finiscono col mostrare che il Cherubini avea cercato Maria per Ravenna, sostituendo frasi letterarie a quelle milanesi, che spesso aveano precisa rispondenza con toscane; e che infine la frase più giusta, la parola più propria era la più semplice.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:

 

(1) Anzi Gino Capponi ' a pag. 316 della sua Storia di Firenze, dice che nelle rime del Petrarca a non è mai parola o modo che abbia del vecchio e non possa oggi essere usato senza affettazione

 

(2) Per brevissimo saggio di dialetti di paesi lontani  accenniamo:

 

Friulano                        Milanese                      Reggino

 

Sang                            sang                             sangu                           sangue

madonne                      madonna                      Madonna                      suocera

diaul                             diavol                           diaulu                           diavolo

ligrie                            legria                           lligria                            allegria

brazz                            brazz                            brazzu                          braccio

trezzis                          trezz                            trizzi                             trecce

Mollar                          mollà                            mollar                          lasciarsi uscir di mano

ven                              ven                              veni                             vieni

 

lusive la luna                 lusiva la luna                 dduciv'a luna                splendea la luna

 

 

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